𝐋𝐨 𝐢𝐮𝐬 (𝐦𝐚𝐥)𝐩𝐨𝐬𝐢𝐭𝐮𝐦 𝐧𝐨𝐧 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐦𝐩𝐨𝐧𝐞 𝐥𝐞 𝐟𝐫𝐚𝐭𝐭𝐮𝐫𝐞 𝐟𝐫𝐚 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐞 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐨𝐧𝐢

di Arcangelo Monaciliuni

Calamus iuris – anno 1 – n. 5 – aprile 2020

Un mio recentissimo scritto “Il potere di ordinanza nell’era del coronavirus” ha tentato una ricostruzione sistematica delle fonti del potere emergenziale/eccezionale per trarne la sussistenza, già de iure condito, a Costituzione invariata, di una preminenza delle potestà statali: beninteso, in presenza di una dichiarazione dello stato di emergenza “ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 1, lettera c, e dell’art. 24, comma 1, del d. l.vo 2 gennaio 2018, n. 1”, ovvero di uno stato di emergenza “di rilievo nazionale” che non conosce confini, barriere interne, comunali o regionali, oltre a non conoscere nemmeno confini esterni.

Ad incipit dello scritto vi è il richiamo al “Videant consules ne quid detrimenti res publica capiat” (Vigilino i consoli affinchè alcun danno subisca la repubblica), ovvero alla formula sacrale mediante la quale il Senato di Roma, attraverso un “senatus consultum ultimum”, a fronte di situazioni di emergenza e/o di gravi pericoli per lo Stato conferiva ad un “dictator” poteri pressocchè assoluti.

A sua conclusione vi è l’avvertenza: “Bene, se la guerra in atto deve farci concludere che “a la guerre comme a la guerree che quindi non si può parlare, come taluni costituzionalisti han fatto, di eclissi delle libertà costituzionali e se, a guerra dichiarata, può anche farsi luogo ad una “militarizzazione” del Paese, per difenderne la vita stessa per il periodo necessario per conseguire il risultato, occorre, io credo, far tesoro della saggezza degli antichi Padri (“Videant consules ..”) e ammettere che, per vincere la guerra, il “dictator”  ha da essere uno. Il che a dire che poteri diffusi -il cui esercizio peraltro disorienta e contribuisce ad alimentare quel panico, fino ad oggi non del tutto considerato nella sua deleteria pregnanza- non sono compatibili con la realtà data: in fatto ed in diritto. Io credo, in definitiva, che uno stato di emergenza, di eccezione, di guerra, lungi dal liberarci dalla corazza del diritto, vieppiù ci astringa a restare ben avviluppati in essa, sì da poter fronteggiare al meglio le spinte centrifughe, gli istinti che inevitabilmente han vita in tali periodi, ovvero sì da dare ad esse/i risposta, di dar risposta all’homo homini lupus o al bellum omnium contra omnes. Il che ancora a dire che non sono d’accordo con quanti ritengono che allorquando sia minacciata la vita, che sostanzia la premessa di ogni libertà, “l’età dei diritti” (N. Bobbio) e “il diritto di avere diritti” (S. Rodotà) debbano cessare di aver vita.

Prendo le mosse da qui per reintervenire e soffermarmi sulle previsioni dell’ultimo decreto-legge, n. 19 del 25 marzo 2020, avente fra i suoi fini dichiarati anche quello di conferire un assetto meglio definito, se non anche organico, al riparto di attribuzioni Stato/Regioni nell’era del coronavirus.

Fini che non appaiono esser stati raggiunti.

Già nel precedente scritto ho avuto modo di stigmatizzare il dato che, come da insegnamento dei Patres, il senatus consultum avrebbe dovuto essere la sede, propria e previa, delle attribuzioni/riparto delle potestà in presenza dell’evento emergenziale.

Meglio cioè se fosse stato il Parlamento, all’esito del confronto nella sede istituzionale della dialettica democratica, a dettare le norme del caso in via preventiva e non nella successiva sede di conversione del primo decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6. E ciò vieppiù considerando:

– che le misure disposte venivano (vengono) ad esaurire i propri effetti in un breve volger di tempo, così restando riservata alle Camere una mera funzione di ratifica, nelle condizioni emergenziali date difficile da negare. E tanto, senza che sia dato comprendere le ragioni dell’abdicare da parte del Parlamento alle funzioni precipue sue proprie, a monte: in verità forse chiare, ma di natura estranea ai profili di mero diritto di cui intendo qui occuparmi.

– che, per la medesima ragione (esaurimento degli effetti delle misure in un breve volger di tempo, fissato entro un termine massimo di 30 giorni dal d.l. n. 19 del 2020, di cui più diffusamente in avanti), non può essere enfatizzato il dato che l’aver affidato la potestà dispositiva a provvedimenti del Presidente del Consiglio dei ministri e, nei limiti previsti, del Ministro della Salute e delle Regioni ne assicura il controllo giurisdizionale diffuso.

Ed invero, in disparte i profili in ordine agli spazi di esercizio delle potestà che possono esser lasciati privi di puntuale copertura normativa primaria, il controllo giurisdizionale appare destinato ad esaurirsi con la tutela cautelare provvisoria assicurata da decreti presidenziali monocratici dei Presidenti dei Tribunali Amministrativi Regionali, nel mentre la fase del merito, se non anche quella della tutela cautelare collegiale, sarà –naturaliter, stante lo spirare degli effetti delle misure- destinata ad esser definita con pronunce in rito di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, fatti salvi, ex art. 34, comma 3, c.p.a., improbabili casi in cui avesse a potersi ravvisare il perdurare dell’interesse ai fini risarcitori.

Ma tant’è, così non è stato.

Tuttavia, se l’urgenza e la necessità potevano giustificare il ricorso alla primigenia decretazione di urgenza, si stenta a riconoscere la sussistenza dei presupposti (art. 77 Cost.) per la successiva decretazione, di cui al sopravvenuto d.l. n. 19 del 2020 in commento: per quanto qui ora più riguarda, ovvero nella parte in cui, ex (sola) auctoritate sua, ha normato i rapporti Stato/Regioni per tentare di por fine alle divergenze non solo rese pubbliche, ma di portata tale -per effetto di contrastanti previsioni emanate le une (regionali) a ridosso dall’altra (statale) e viceversa- da recare una sorta di turbativa alla quiete pubblica, creando forte sconcerto nei cittadini.

Ma, anche qui, tant’è, cosi è stato.

Beninteso, i “dubia” in ordine alla sussistenza dei presupposti per la decretazione di urgenza in parte qua non intendono minimamente porre in discussione, o solo soffermarsi a valutare l’operato del Capo dello Stato che il decreto-legge ha emanato. Me ne guarderei bene in assoluto; me ne guardo vieppiù bene in queste ore drammatiche, ben consapevole che il vaglio presidenziale ha da tener conto di molteplici fattori, non tutti emergenti e tutti oggi acuiti dal momento emergenziale. Sicchè, profondo rispetto per il Presidente e per le scelte che, nella sua saggezza, compie.

È ora di dar conto delle ragioni del mio reintervenire, ovvero del mio dissentire dai contenuti concreti dello ius in via di urgenza (ri)positum. Dissenso che non trova linfa dal desiderio di dar luogo a meri esercizi dottrinari, ma dalla preoccupazione che le sopravvenute previsioni non contribuiscono ad una chiarificazione del quadro.

Sinteticamente:

1- Nulla quaestio sul dettato dell’art. 2, comma 1, che impone al Presidente del Consiglio dei ministri di “sentire” previamente anche i Presidenti delle singole regioni interessate dalle misure emanande, ovvero il Presidente delle Conferenze delle regioni, in presenza di misure emanande a valere per l’intero territorio nazionale.

1a- ed invero, come più diffusamente può trarsi dal mio precedente scritto, io credo che in questa fase emergenziale nazionale il (solo) “sentire”, in un quadro costituzionale che tutti i soggetti astringe alla leale collaborazione, soddisfi i principi e le previsioni costituzionali, nonché sia aderente ai precetti posti dalla legislazione ordinaria.

2- Non trova invece il mio favore il disposto dell’art. 3, comma 1, a mente del quale “Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all’art. 1, comma 2, esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale”.

2a- In primo luogo, il presupposto che legittima le Regioni ad intervenire è letteralmente circoscritto alla emersione di “specifiche sopravvenute situazioni” di aggravamenti del rischio sanitario, il che apparrebbe escludere la potestà di interventi di deterrenza/contenimento in assenza dell’aggravamento, terreno questo sul quale in prevalenza finora le Regioni si sono esercitate.

2b- In secondo luogo, in quanto resta indefinita la ripetuta nozione di “specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento”, avuto presente “il ruolo essenziale dei tecnici, quali necessitati ispiratori delle decisioni via via adottate, posto che i dati scientifici rilevano sotto il profilo della possibilità di valutare la proporzionalità e la ragionevolezza delle misure adottate rispetto agli scopi perseguiti”. Così nel mio precedente scritto, a sostegno del prosieguo secondo cui: “Il che, e direi proprio in ragione della non univocità dei pareri, non può che essere accentrato ad evitarsi il caos; si pensi solo all’accavallarsi di contrarie prescrizioni da parte dello Stato e della regione Campania in tema di “passeggio” o di accesso alle tabaccherie, ovvero da parte dello Stato e della regione Lombardia in diversi dei 27 divieti disposti nella sola sede regionale con le refluenze concrete già avutesi: denunce ed impugnative. E, a tal riguardo, si mediti sulla discrezionalità affidata agli operatori di polizia nel dover ricondurre, a fronte di generiche prescrizioni (i “motivi di necessità” che possono giustificare l’abbandono delle abitazioni e/o dei Comuni), determinate condotte a fattispecie incriminatrici”.

2c- In terzo luogo, il potere di normazione regionale vien conferito “Nelle more dell’adozione….”, a preconizzare, a mò di Tiresia, la sicura sopravvenienza di norme a livello centrale.

2d- In quarto luogo, poiché non risulta agevole individuare “l’ambito delle attività di competenza” delle Regioni, entro il quale “esclusivamente” la potestà può essere esercitata. E non risulta agevole soprattutto in quanto l’apodittica espressione non si fa carico delle divergenze esistenti sul punto fra Governo e Regioni, delle diverse letture del combinato disposto fra art. 117 e art. 120 Cost., quali pubblicamente ostese, da ultimo nello scontro avutosi solo poche ore fa fra Stato e Regioni, di certo Campania e Lombardia, ancora platealmente divergenti sempre in tema di “passeggio”. Ed invero, l’assessore regionale lombardo al Welfare ed il Presidente della Giunta regionale campana hanno contestato vibratamente la circolare del Ministero dell’Interno n. 15350 del 31 marzo u.s. che apre spazi per alcuni tipi di “passeggio”. In particolare, il Presidente De Luca ha redatta una nota scritta che, per quanto riportato dai media, così suona: “Considero gravissimo il messaggio proveniente dal Ministero dell’Interno, relativo alla possibilità di fare jogging e di passeggiare sotto casa (… omissis…). Ribadisco che in Campania rimane in vigore l’ordinanza regionale derivata da motivi di tutela sanitaria, la cui competenza è esclusivamente regionale. Si ribadisce che è assolutamente vietato uscire a passeggio o andare a fare jogging”.

Il che, indipendentemente dal merito, che non sta a chi scrive vagliare:

– disorienta i cittadini, che non sanno a chi devono prestare obbedienza;

– come già innanzi ho rilevato, alimenta a dismisura paure e panico;

– pone in difficoltà le forze dell’ordine, richiamate dall’ultimo capoverso della circolare a farne rispettare la “corretta osservanza”;

– da ultimo, ma non per ultimo, non aiuta i Sindaci, che sono in prima linea per assicurare l’attuazione delle misure prese ai livelli superiori.

2e- Per completezza di discorso, corre infine l’obbligo di rilevare come il decreto-legge si sia invece fatto carico di meglio specificare il quadro sanzionatorio, sottraendolo all’invero inammissibile esercizio di potestà regionali ed ha riscoperto, quanto a fonte esistente e legittimità delle sanzioni, l’art. 260 del T.U. delle leggi sanitarie: profili questi anch’essi sui quali avevo avuto modo di soffermarmi nel precedente scritto.

3- Nulla da commentare in ordine all’art. 3, comma 2, che si è limitato a chiudere ogni spazio di interventi ulteriori ai Sindaci, qui dando una lettura, tout court, restrittiva del coacervo dispositivo di cui all’art. 118 Cost. ed alle molteplici previsioni della legislazione ordinaria che, tutte, in applicazione del principio della sussidiarietà, partono dal livello comunale e, via via, salgono per i rami.

3a- Nulla da commentare perché troppo vi sarebbe da dire e perché, in via di principio, il mio avviso è nel senso che, hic et nunc, il “dictator” ha da essere uno, anche se può/deve giovarsi dell’ausilio di “procuratores” locali.

Nel chiudere, mi vien fatto di ricordare che in sede di assemblea costituente non si dubitò mai del fatto che “la potestà legislativa attribuita alla Regione non intacca né diminuisce in alcun modo la potestà superiore e l’interesse generale dello Stato, non solo per la ristrettezza delle materie e per la loro importanza meramente locale, ma anche per i limiti di portata più generale che si pongono all’esercizio di siffatta potestà legislativa e per i correttivi previsti per infrenare l’eventuale azione del Consiglio regionale che straripasse dai limiti della sua competenza o che in altro modo apportasse una lesione all’interesse delle altre Regioni o dello Stato”. Così  l’on. Ambrosini, nella sua relazione scritta alla 2^ Sottocommissione, nell’illustrare e difendere il testo dell’art. 117 e, negli stessi sensi, il dibattito in Assemblea in occasione del varo dell’art. 5 “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali….”, dell’art. 16  “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale… “ e dell’art. 23 “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

E se tale era la visione dei Padri costituenti, la Grundnorm che precorre e percorre l’intera Carta, preoccupata di difendere la nascente Repubblica dai germi del fascismo/autoritarismo, e se tale essa era in relazione all’ordinaria condizione dei rapporti Stato/Regioni, potrebbe anche serenamente concludersi che per affermare, nelle condizioni emergenziali oggi date, il necessitato accentramento dei poteri in capo allo Stato non vi è bisogno di rimpiangere che il popolo sovrano, nel dire “no” al referendum costituzionale del dicembre del 2016, ebbe così anche a precludere l’ingresso in Costituzione della clausola (c. detta di supremazia): “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica”; clausola questa che il disegno di legge di riforma costituzionale che, fra l’altro, modificava il Titolo V della Costituzione, intendeva introdurre, sopprimendo nel contempo il comma dell’art. 117 Cost. che affida alle regioni la potestà legislativa residuale.

Certo, l’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni impone decisamente che ad una riforma del Titolo V si torni a porre mano. In un quadro semplificato e chiaro il virus del dissenso non avrebbe avuto spazi per aggredire i gangli vitali delle potestà, minandone l’efficienza/efficacia. Il che, beninteso, per quanto afferisce alle polemiche Stato/Regioni in commento, non sta a significare che io plauda alle decisioni in concreto assunte dallo Stato e dissenta da quelle delle Regioni, in particolare della mia Campania. Ho le mie idee al riguardo, ma sono quelle di un comune cittadino che non ha a supporto un bagaglio di conoscenze tecniche utili alla bisogna, nonché il composito quadro generale che deve ispirare l’azione dei reggitori.

Quel che ho inteso fin qui affermare è solo la necessitata centralizzazione delle decisioni in un quadro di leale collaborazione, auspicando che quelle assunte sian quelle giuste, consapevole comunque che la frammentazione non può che esser deleteria.

E tanto, in cospetto della ripetuta drammatica situazione emergenziale, legata ad una epidemia a livello non solo nazionale, ma, di più, ad una pandemia a livello mondiale, in presenza della quale, a gran voce, si invocano decisioni unitarie, comuni, a livello europeo, pena lo sfaldamento della già precaria costruzione, del sogno irrealizzato di Spinelli.