Accesso (agli atti) e (protezione delle) fonti giornalistiche

di Arcangelo Monaciliuni

Accesso (agli atti) e (protezione delle) fonti giornalistiche

Nota a Tar del Lazio, Sezione III, n. 7333 del 18 giugno 2021

La delicatezza delle problematiche che, sotto diversi profili, investono la stampa e la sua libertà (melius: le sue libertà) sono ben note. Fra esse quella del (grado di) estensione/estensibilità delle tutele ai diversi altri soggetti che, a titolo vario, oggi occupano l’etere per informare e quella della legittimità di previsioni comminanti pene detentive ai giornalisti, in tesi preclusive, attraverso un “chilling effect” (effetto dissuasivo), dell’esercizio della libertà di stampa.

Proprio nelle ore in cui sto scrivendo, in questo 22 giugno 2021, la Corte Costituzionale deciderà, avuto riguardo all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed all’art. 21 della Costituzione, sulla compatibilità con il principio della libertà di espressione di una normativa che minacci il carcere per i giornalisti. E’, infatti, spirato inutilmente il termine di un anno assegnato al Parlamento per “dettare una nuova disciplina della materia” (C.C. comunicato del 9 giugno 2020).

Orbene, che i giornalisti siano “the watchdogs” (i cani da guardia) della democrazia è affermazione risalente e pacifica. Restando all’oggi e restando al campo del diritto, il principio, munito delle conseguenti statuizioni, è stato affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in fondamentali sentenze, a partire da Goodwin contro Regno Unito (1996) e, per restare poi alla sola Italia, da Belpietro c. Italia (2013), Ricci c. Italia (2013), Sallusti c. Italia (2019).

Più in particolare, e più aderente nello specifico al “caso” di cui immediatamente in avanti, la recentissima sentenza CEDU depositata il 1° aprile 2021 su ricorso n. 42634/2018 Case of Sedletska contro Ucraina ha  (ri)affermato solennemente che la protezione delle fonti è la chiave di volta della libertà di stampa perché, senza un’adeguata ed effettiva tutela, questa potrebbe astenersi dal divulgare notizie di interesse generale, compromettendo il ruolo di “cane da guardia” della società che è proprio dei giornalisti liberi. In sintesi i giornalisti hanno il diritto di ricercare informazioni e di non svelare le fonti e, in conseguenza, esiste un obbligo internazionale degli Stati volto a garantire la tutela della loro segretezza. Protezione, per i giudici di Strasburgo, ad aversi ad ampio raggio, dovendo estendersi anche alle informazioni indirette e materiali in possesso dei giornalisti. In tali specifici sensi CEDU, sentenza del 15 dicembre 2019, di accoglimento del ricorso presentato da quattro quotidiani britannici, il Financial Times, l’Indipendent, il Guardian ed il Times, contro la decisione con cui l’High Court inglese aveva imposto loro di consegnare dei documenti con i quali si sarebbero potute identificare le fonti che avevano diffuso la notizia di un piano di fusione societario.

Orbene, il Tar del Lazio, sezione III, con la sentenza n. 7333 del 18 giugno 2021 -decidendo sul ricorso proposto, nella prospettata “esigenza di tutelare la propria reputazione nelle sedi competenti”, da soggetto dichiaratosi leso da “notizie false e fuorvianti” contenute in un servizio della trasmissione televisiva “Report”- ha così statuito: “…

12.2. Nella prospettiva delineata, va ritenuta suscettibile di ostensione nel caso in esame la documentazione connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali.

La suddetta documentazione risulta costituita, in particolare, dalle richieste informative rivolte in via scritta dalla redazione del programma ad enti di natura pubblica in merito all’eventuale conferimento di incarichi ovvero di consulenze in favore di parte ricorrente, unitamente ai riscontri forniti dai suddetti enti, in quanto rientranti nel novero dei documenti e degli atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio….”.

Come era facilmente prevedibile la pronuncia ha visto immediatamente, come di norma accade nel nostro Bel Paese, scendere in campo i diversi schieramenti (da una parte vi è “Report”, dall’altra il ricorrente, a quanto si legge legato alla Lega, e in mezzo “Mamma RAI”), preoccupati solo di correre, acriticamente, ad adiuvandum o ad opponendum, a seconda delle rispettive posizioni, ovvero della cura dei loro interessi particolari.

La sentenza offre diversi spunti di approfondimento, a partire dalla natura della RAI, dalla qualificazione dei giornalisti RAI, da taluni ritenuti dalla sentenza “degradati” a meri incaricati di pubblico servizio, dalla natura delle prestazioni richieste ai giornalisti, nella loro generalità, e/o, nel caso peculiari, a quelli inseriti nel contesto pubblico, alle differenze fra accesso documentale ed accesso civico.

Sarebbe davvero un vaste programme quello di tentare di occuparsi di siffatta summa di quaestiones. Tentativo, peraltro, superfluo in quanto una lettura serena della pronuncia ben potrebbe ridimensionare il tutto, sempre che vogliano riporsi i vessilli, farsi cessare battaglie ideologiche per rendersi conto che, come si evince dalla parte innanzi virgolettata, il giudice amministrativo ha concesso ben poco, e nulla che possa effettivamente porre in pericolo “fonti” da preservare. Non è ultroneo far constare, al riguardo, che se è vero che la legge 3 febbraio 1963, n. 69, art. 2, comma 4, tutela il segreto professionale: “Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie …” ancora vero che la tutela è circoscritta al …”quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse….”.

Orbene, la pronuncia del giudice capitolino in commento, dopo essersi occupata delle diverse posizioni delle parti (domande ed eccezioni), facendo previo luogo a pregevoli disamine dei vari Istituti in rilievo, ha “assorbito” il profilo della tutela delle fonti, affermando al punto 12.3. (che segue immediatamente il punto 12.2 innanzi virgolettato): “La delimitazione in siffatti termini della documentazione ostensibile, coinvolgendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, rende priva di rilievo nel caso concreto la prospettazione difensiva articolata dalla Società resistente circa la prevalenza che dovrebbe riconoscersi al segreto giornalistico sulle “fonti” informative per sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie”.

Il percorso motivazionale/decisionale che -come precisato in sentenza, “nel caso concreto” al vaglio giudiziario- ha condotto alle statuizioni finali, in esse comprese l’assorbimento della “prospettazione difensiva” incentrata sulla “tutela delle fonti”, appare tecnicamente non contestabile. Certo, in via teorica, il punto esiste, i dubia esistono, alla luce della giurisprudenza CEDU di cui innanzi e delle intersecazioni, obiettivamente esistenti, fra fonti e documenti. E tanto in un contesto in cui è ben noto, a chiunque abbia dimestichezza con la concreta declinazione del diritto di accesso, che non di rado gli omissis non assolvano alla loro funzione di tutela, anzi aprono spazi di maggior discovery.

Vedremo se nel caso sarà il giudice di appello ad occuparsene, ovvero se anche Palazzo Spada seguirà lo stesso percorso del giudice di primo grado.

Quanto alla tecnicità dei percorsi ed alla loro liceità, mi sia consentita una (apparente) digressione finale.

Con sentenza n. 200 del 2006 la Corte Costituzionale decise in favore del Presidente della Repubblica e contro il Guardasigilli il conflitto di attribuzione sorto in relazione al potere di concessione della grazia, ovvero sulla necessità o meno della controfirma del provvedimento di grazia da parte del secondo. In disparte il merito della pronuncia (che io non condivisi e ne scrissi in un due articoli “La grazia, il potere regio e l’irresponsabilità presidenziale, e “La grazia, la prerogativa regia e l’irresponsabilità presidenziale nel loro progressivo divenire”, pubblicati da Lexitalia, all’epoca non esistente Calamus iuris, la rivista che gentilmente oggi mi offre ospitalità) quel che mi colpì fu l’aver trasformato il conflitto, questo alto conflitto, in una minuta vicenda procedimentale, di quelle che, afferenti alla P.A., il giudice amministrativo decide ogni giorno. In tali sensi deponeva la motivazione (“… In definitiva, qualora il Presidente della Repubblica abbia sollecitato il compimento dell’attività istruttoria ovvero abbia assunto direttamente l’iniziativa di concedere la grazia, il Guardasigilli, non potendo rifiutarsi di dare corso all’istruttoria e di concluderla, determinando così un arresto procedimentale, può soltanto rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento…) e lo stesso dispositivo che “annullava la impugnata nota ministeriale del 24 novembre 2004 (che non sostanziava una mera “letterina”, ma la enunciazione delle ragioni per cui il Ministro negava, sotto i profili sostanziali, la firma).

Ecco, se tale è (fu) il percorso della Consulta, non vi è spazio per rammaricarsi (ove mai…) di quello del giudice amministrativo, cui non è dato “volare” alto, per doversi mantenere nei confini delle regole della giurisdizione, delle regole processuali che normano, nell’ambito e nei confini della legge, la sua funzione.