Sulla (in)disponibilità della vita

di Arcangelo Monaciliuni

Nel 2009, in piena vicenda “Eluana Englaro”, in uno scritto dallo stesso titolo, ebbi modo fra l’altro di sostenere come “ .. a mio modo di vedere posizione assolutistica è sia quella che vede la vita come valore assoluto dal momento del concepimento alla morte naturale, senza farsi laicamente carico del significato di “naturale” in un’epoca in cui la vita può essere e viene artificialmente prolungata in modo, esso sì, innaturale, sia quella che, in una visione totalizzante, intende affidare unicamente all’autodeterminazione la soluzione del tutto. In tal caso, infatti, vien da chiedersi: con i bambini, quale è la via; qual è la via nei casi di conflitti fra parenti, quali quelli, virulenti, avutisi nella vicenda di Terry Schiavo; quale è la via a fronte di chi, in un più acuto momento di scoramento, intende porre termine al proprio cammino, e così di seguito.

Non vale dunque affermare: io non violo la tua libertà di scelta, tu lascia libero me.

La famiglia, la comunità via via più allargata, lo Stato, pur dovendo assicurare il massimo possibile di autodeterminazione in una sfera così intima, non possono mantenersi estranei. Quanto allo Stato, vi sono doveri legati alla necessità di perimetrare gli spazi (la deriva eugenetica, di cui agli “Untermenschen”, ovvero ai “subumani” della dottrina nazista), di mantenere unito il corpo sociale, di assicurarsi che quel me esista, ovvero che ad esser perseguito sia effettivamente il best interest del soggetto incapace. E tanto, muovendosi su di un terreno delicato in cui non può ipocritamente fingersi che non esistano pulsioni diverse mutabili nel tempo in chi, vigile, deve giorno per giorno continuare a vivere”.

E poi ancora aggiungevo: “… Occorre fare i conti con la realtà, con la sua poliedricità, ed occorre porsi di fronte alle angosce del mondo odierno con umiltà, con il convincimento che in uno Stato costituzionale nessuno è padrone del diritto, né legislatori, né giudici, né giuristi, occorrendo assicurare una mite coesistenza fra leggi, diritti e giustizia” (Gustavo Zagrebelsky in “Il diritto mite”)”.

Questi concetti io credo ben possano essere riaffermati ancora oggi, in presenza:

1-    della pronuncia della Corte Costituzionale n. 241 del 2019 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”;

2-    della discussione parlamentare in corso sulla “legge sulla morte volontaria medicalmente assistita” (c. detta fine vita); intervento, questo del legislatore, (ri)sollecitato dal giudice delle leggi nell’ultimo capoverso della pronuncia sub 1, che così recita: “Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati.”;

3-    delle procedure in fieri per sottoporre a referendum l’abrogazione della parte dell’art. 579 c.p. che sanziona con la reclusione da sei a quindici anni l’omicidio del consenziente: procedure al cui esito, se la Consulta darà il via libera e se il Parlamento non interverrà prima, andremo alle urne il prossimo anno;

4-    del diniego opposto dall’Autorità giudiziaria di Ancona alla richiesta di X, tetraplegico marchigiano, di ordinare, asseritamente in ossequio alla decisione della Corte Costituzionale di cui sempre sub 1, “all’azienda sanitaria di prescrivergli, all’esito degli accertamenti previsti dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, il farmaco Triopentone sodico” per poterlo assumere e “porre fine alla propria esistenza secondo una modalità rapida, efficace non dolorosa”.

Orbene, stringatamente, partendo dall’ultimo punto.

Il giudice ordinario di Ancona non aveva altra scelta che negare la sua potestà di impartire l’ordine. Ed invero, come si legge nella relativa pronuncia, “non vi sono motivi per ritenere che, individuando le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi penalmente lecito, la Corte abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza. Ciò anche perché lo stesso giudice costituzionale, nelle sue decisioni, ha ribadito che dall’art. 2 Cost. -non diversamente che dall’art. 2 CEDU- discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello -diametralmente opposto- di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” (Corte cost. ord. n. 207 del 2018).

Del resto, è il caso di aggiungere, la Corte aveva ancora più espressamente precisato che: “Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.”.

Ben vero che, in sede di decisione sul reclamo avverso il rigetto della domanda, il medesimo Tribunale di Ancona (ora in composizione collegiale, ord. del 9 giugno 2021) ha ordinato alla ASUR – Azienda sanitaria unica regionale “l’accertamento della sussistenza dei presupposti richiamati nella sentenza n. 242/2019 ai fini della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo” e “la verifica sull’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco prescelto dall’istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile”, ma ancora vero che, in sintonia con il primo giudice, il Collegio ha ribadito che “dal diritto a morire rifiutando i trattamenti (già riconosciuto dal Legislatore) non si può desumere il riconoscimento del diritto a essere lato sensu aiutati a morire, persino tramite il ricorso al Servizio sanitario nazionale”.

A valle di queste pronunce è in corso un braccio di ferro fra X e le Autorità sanitarie, in un tentativo, come meglio chiarito in avanti, di forzare la mano ed ottenere che la richiesta venga esaudita hic et nunc.

Direi che è la storia che si ripete. Vedremo come andrà a finire questa volta, avuto conto che, se pur reso non punibile l’aiuto al suicidio, non per questo l’esercente la professione sanitaria (medico, infermiere) o, a monte, Regione o Asl che prestassero un tale aiuto sarebbero automaticamente al riparo dal procedimento penale e, in tesi, da una condanna. Ed invero, come si trae da quanto innanzi esposto, il reato di aiuto al suicidio non è stato cancellato del tutto dall’ordinamento giuridico, ma solo reso non punibile nella sussistenza delle condizioni indicate dalla Consulta. Ne deriva che, dovendo queste ultime equipararsi a una qualsiasi delle altre cause di giustificazione previste dalla legge per ogni tipo di reato, spetta soltanto all’autorità giudiziaria, secondo le regole generali, stabilire se esse siano o meno effettivamente sussistenti e, comunque, se siano state rispettate le indicazioni (percorsi e sostanza) fornite dalla Corte. Ma soprattutto, per quanto più vale, non è dato comprendere come possano essere evitate imputazione e processo. Preoccupazione questa che è dato ritenere funga da sfondo al “balletto” cui si sta assistendo in queste ultime ore, fra Regione, Asur ed altri soggetti, per addivenire sì alla prescrizione del farmaco letale, ma senza rimanere con il “cerino” acceso nelle proprie mani.

Risalendo ora pe li rami, osserverei che:

a) Il referendum va “molto oltre i confini ragionevolmente fissati dalla Corte perché liberalizza ogni forma di omicidio del consenziente, anche se determinato, ad esempio, da una depressione, da un fallimento finanziario, da una delusione sentimentale, da una momentanea fragilità psichica e anche se commesso con mezzi violenti” (così su Repubblica di mercoledì 25 agosto 2021, Luciano Violante in “Limiti fra fine vita e diritti”). Negli stessi sensi, da me condivisi, Giovanni Maria Flick in una intervista dell’Avvenire del 21 agosto 2021: “Chi uccidesse un maggiorenne e cosciente di sé che glielo chiede, anche in buona salute, non rischierebbe il carcere. Sarebbe questa la buona morte? Farsi uccidere è una battaglia di libertà? Attraverso leggi penali non si vuole più dare certezza ai cittadini, ma far valere una specifica visione della vita”. Ancora in questi sensi ed utilizzando pressoché le stesse parole, Alberto Gambino che si spinge oltre fino a dubitare che la Corte Costituzionale possa ammettere il quesito referendario, quale proposto (dichiarazione riportata da Sir del 17 agosto 2021).

b) Ragioni soprattutto processuali forse rendevano obbligato l’intervento della Corte Costituzionale nei sensi in cui si è, da ultimo, dispiegato con la cennata sentenza n. 241 del 2019. Per vero, il dibattito è aperto anche al riguardo, tant’è che è stato sostenuto che “con la decisione di non punire alcune situazioni di assistenza al suicidio la Corte costituzionale italiana cede ad una visione utilitaristica della vita umana ribaltando la lettura dell’articolo della nostra Carta che mette al centro la persona umana e non la sua mera volontà, richiedendo a tutti i consociati doveri inderogabili di solidarietà: da oggi non sarà più un dovere sociale impedire sempre e ovunque l’uccisione di un essere umano”. (così in “La Corte sradica la solidarietà dalla Costituzione italiana” ancora Alberto Gambino su Scienza & Vita del 25 settembre 2019).

La mia posizione sul punto è quella che il piano era stato inclinato da tempo, sicchè risultava difficile alla stessa Corte rialzarlo. Con questo non intendo sostenere che la scelta di perimetrare, operata certamente al meglio, fosse obbligata. Resto infatti convinto che possa legittimamente sostenersi che il giudice delle leggi non fosse “obbligato” ad incidere nello ius positum, ben potendo ritenersi che questo fosse in condizioni di “coprire” la generalità dei casi concreti. Ogni vita è diversa dall’altra, ogni situazione è diversa dall’altra, ogni sofferenza, del malato e di chi gli è vicino, è diversa e diverse sono le soglie di sopportazione: del malato e di chi gli è vicino. E ancora diverse, uniche, son le situazioni a latere, gli “interessi” affettivi e, senza ipocrisie, materiali. E se così è, e così è, il dettare, per quale via che sia, norme/previsioni di dettaglio (ma) a valenza generale che uniformino situazioni intimissime e delicatissime, può non essere (stata) la scelta giusta.

Tale convincimento -“… ben potendosi ritenere che ad uno Stato laico e non etico si richiedano altre forme di intervento volte a perimetrare l’esterno, senza invadere la sfera intima…”- ho avuto modo di esternare in altro mio scritto, risalente sempre al 2009, “Sui principi della democrazia, sulla solidarietà, ovvero sul Deus che charitas est.” rispettosamente volto a dar conto delle mie perplessità giuridico/istituzionali in esito alla decisione dell’allora Capo dello Stato di rifiutarsi di emanare il decreto legge che avrebbe consentito di non staccare la spina ad Eluana Englaro (decreto legge che, a mio avviso, non si poneva in fraudem jurisdictionis, come in sostanza paventato dal Presidente della Repubblica) e, lo stesso giorno, la sera del 6 febbraio 2009, autorizzare il Governo a presentare un disegno di legge avente l’identico contenuto.

c) E se così è, se il piano ormai troppo inclinato appare obbligare il Parlamento ad intervenire, a rispettare i moniti della Consulta, vi è da auspicare una legislazione il meno possibile invasiva, sì da lasciare il più ampio degli spazi possibili alla “gestione” singola di vicende tanto dolorose.