𝐋𝐚 𝐩𝐢𝐥𝐥𝐨𝐥𝐚 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝟐𝟔.𝟎𝟑.𝟐𝟎𝟐𝟐: Gli effetti dell’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto sulla permanenza dell’assegno di mantenimento

Gli effetti dell’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto sulla permanenza dell’assegno di mantenimento

a cura dell’avvocato Paolo Vincenzo Rizzardi

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n.32198 del 05/11/2021.

La pronuncia in commento risolve la questione relativa alla sorte dell’assegno di divorzio nel caso in cui il coniuge che ne benefici abbia istaurato una stabile convivenza con un terzo, atteso il disposto normativo previsto dall’articolo 5, comma 10, della legge n. 898/1970.

Appare opportuno sin da subito sottolineare che l’arresto giurisprudenziale in commento si colloca, senza soluzione di continuità, sulla scia dell’orientamento inaugurato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 18287/2018.

La questione rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: “ la sorte dell’assegno di divorzio là dove il coniuge che ne benefici abbia instaurato una convivenza stabile con un terzo, dovendosi stabilire se l’effetto estintivo previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 10, nel caso di nuove nozze del beneficiario trovi automatica applicazione nella distinta ipotesi della famiglia di fatto, e, qualora si escluda l’automaticità dell’effetto estintivo, se e in che modo e misura l’istaurarsi di una nuova convivenza stabile da parte dell’ex coniuge titolare del diritto all’assegno incida sul diritto alla provvidenza economica e sulla sua misura, e infine se il diritto all’assegno possa riespandersi nella sua pienezza o entro che limiti, qualora venga a cessare la nuova convivenza di fatto”.

 l riguardo, si segnala che l’orientamento più recente della Corte di Cassazione, a cui i giudici d’appello si sono uniformati, ritiene che, attesa l’equivalenza della famiglia basata sul matrimonio e di quella sottesa ad una convivenza di fatto, possa applicarsi analogicamente il comma 10 dell’articolo 5 della legge n. 898/1970 anche all’ipotesi in cui il beneficiario di un assegno di mantenimento istauri una stabile convivenza di fatto con un terzo. Pertanto, secondo tale ricostruzione, in ossequio al principio di autoresponsabilità, la costituzione di una convivenza di fatto ha l’effetto di far cessare automaticamente la corresponsione dell’assegno di mantenimento.

Invero, “l’orientamento di più recente affermazione di questa Corte di cassazione, che ha trovato applicazione nella sentenza dei giudici di appello, si attribuisce dignità piena alla famiglia di fatto che, in quanto stabile e duratura, è da annoverarsi tra le formazioni sociali in cui l’individuo, libero e consapevole nella scelta di darvi corso, svolge, ex art. 2 Cost., la sua personalità. In applicazione del principio dell’auto-responsabilità la persona mette in conto quale esito della scelta compiuta, con il rischio di una cessazione della nuova convivenza, il venir meno dell’assegno divorzile e di ogni forma di residua responsabilità post-matrimoniale, rescindendosi attraverso la nuova convivenza ogni legame con la precedente esperienza matrimoniale ed il relativo tenore di vita”.

Ciò ha condotto il collegio rimettente ad auspicare un ripensamento. Invero, la principale argomentazioneadottata è quella in forza della quale si sottolinea che, a far data dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18287/2018, la funzione dell’assegno divorzile appare duplice, ossia oltre che assistenziale, è soprattutto compensativa, riconoscendo all’ex coniuge economicamente debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della famiglia. Invero, al capo 9.3. della sentenza, il collegio rimettente segnala che “[…]va colta l’esigenza, piena, di dare all’assegno divorzile una lettura che, emancipandosi da una prospettiva diretta a valorizzare del primo la funzione assistenziale, segnata dalla necessità per il beneficiario di mantenimento del pregresso tenore di vita matrimoniale, resti invece finalizzata a riconoscere all’ex coniuge, economicamente più debole, un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione di vita, nella formazione dei patrimonio della famiglia e di quello personale dell’altro coniuge. Dopo una vita matrimoniale che si è protratta per un apprezzabile arco temporale, l’ex coniuge economicamente più debole, che abbia contribuito al tenore di vita della famiglia con personali sacrifici anche rispetto alle proprie aspettative professionali ed abbia in tal modo concorso occupandosi dei figli e della casa pure all’affermazione lavorativo-professionale dell’altro coniuge, acquista il dritto all’assegno divorzile”.

Prima di rispondere al quesito la Suprema Corte di Cassazione riporta il contrasto giurisprudenziale esistente.

Secondo un primo e risalente orientamento, l’istaurazione di una stabile convivenza non determinava la cessazione automatica dell’assegno divorziale, ma la sua eventuale rimodulazione quantitativa ad opera del giudice. “[…]Principio affermato fin da Cass. n. 1477 del 1982, e poi ripreso da Cass. n. 3253 del 1983Cass. n. 2569 del 1986, Cass. n. 3270 del 1993; Cass. n. 13060 del 2002Cass. n. 12557 del 2004Cass. n. 1179 del 2006, che afferma che possono rilevare anche risparmi di spesa derivanti dalla nuova convivenza; Cass. n. 24056 del 2006; Cass. n. 2709 del 2009; Cass. n. 24832 del 2014, che mette in luce, come già altre in precedenza, il carattere precario dei nuovi benefici economici legati alla convivenza, e quindi come essi siano limitatamente incidenti sulla parte dell’assegno che serve ad assicurare le condizioni minime di autonomia economica”.

Diversamente, una seconda ricostruzione sosteneva che l’instaurazione di una convivenza stabile determinasse la sospensione, per tutta la durata della convivenza, del diritto all’assegno divorzile, producendo, quindi, una quiescenza della posizione giuridica soggettiva. “[…]In questo senso già, a proposito di una ipotesi di separazione personale, Cass. n. 536 del 1977. In tempi successivi, il principio è ripreso, e centrato sulla sorte dell’assegno divorzile, da Cass. n. 11975 del 2003 e poi da Cass. n. 17195 del 2011”.

Infine, l’ultimo orientamento della giurisprudenza riteneva che il diritto all’assegno, in seguito all’istaurarsi di una famiglia di fatto, si estingueva automaticamente e per l’intero, non potendo rivivere in caso di cessazione della convivenza (Cass. n. 6855 del 2015 (e ripreso da Cass. n. 2466 del 2016Cass. n. 18111 del 2017Cass. n. 4649 del 2017Cass. n. 2732 del 2018Cass. n. 5974 del 2019Cass. n. 29781 del 2020). Questa ricostruzione si fondava sul concetto di autoresponsabilità, il quale postulava che la costituzione di una nuova relazione escludesse l’effetto di solidarietà post-coniugale sotteso sia alla relazione precedente sia all’assegno divorzile.

Quest’ultimo orientamento, tuttavia, non è stato condiviso dall’attuale dottrina. Invero, “Non sono mancate voci autorevoli che hanno da subito sottolineato che la soluzione prescelta dal terzo orientamento non fosse convincente sotto il profilo dell’equità, non essendo giusto che il coniuge più debole che ha sacrificato il proprio percorso professionale a favore delle scelte e delle esigenze familiari perda qualsiasi diritto ad una compensazione dei sacrifici fatti solo perché al momento del divorzio, o anche prima, si è ricostruito una vita affettiva. In particolare, dopo l’affermazione della natura anche compensativa dell’assegno di divorzio contenuta in S.U. n. 18287 del 2018, la stessa autorevole dottrina segnala che è del tutto irragionevole nonché lesivo in pari misura dei principi di uguaglianza e di libertà, che tale compensazione venga meno in conseguenza delle scelte sentimentali del coniuge debole, dopo la fine della convivenza”.

Il collegio, dimostrando di non condividere il terzo orientamento, ritiene che “l’affermazione, contenuta in Cass. n. 6855 del 2015, e successivamente condivisa da alcune sintetiche pronunce (principalmente ordinanze della Sesta Sezione […] non è persuasiva nella sua assolutezza, né quanto alla automatica caducazione del diritto all’assegno, né nella conseguenza, che essa necessariamente reca con sé, della perdita automatica, in caso di nuova convivenza, anche della componente compensativa dell’assegno”.

Invero, la Suprema Corte sottolinea che l’automatica esclusione dell’assegno divorzile, in seguito all’istaurazione di una stabile convivenza, non è confortata da alcun riferimento normativo, il quale è fermo nella sua originaria formulazione. Esso circoscrive la perdita del diritto all’assegno divorzile alla diversa ipotesi delle nuove nozze e non anche alla situazione di convivenza.

Invero, il collegio ritiene che non sia possibile applicare per analogia il comma 10 dell’articolo 5 della legge n. 898/1970 all’ipotesi di una nuova convivenza. Ciò è dimostrato, dal progetto di legge, in corso di approvazione in Parlamento,  che stabilisce che “ L’assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza ai sensi della L. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, comma 36, anche non registrata, del richiedente l’assegno”. Ciò depone nel senso che occorrerebbe un’innovazione normativa al fine di escludere la corresponsione dell’assegno divorzile nei casi di nuova costituzione di una convivenza di fatto. Pertanto, “la mancanza di previsione normativa da cui discenda la caducazione del diritto all’istaurarsi di una convivenza di fatto non consente il ricorso all’analogia, atteso che il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 preleggi, solo quando manchi nell’ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n. 2656 del 2015Cass. n. 9852 del 2002): nel caso di specie, non ad un irrimediabile vuoto normativo che necessiti di essere colmato siamo di fronte, ma a regolamentazioni diverse a fronte di situazioni eterogenee sul piano del diritto positivo, che non consentono il ricorso all’analogia”.

 Inoltre, il collegio sottolinea quanto affermato dalla Corte Costituzionale n.308/2008, la quale ha chiarito che “laddove la legge ha inteso associare una automatica perdita di tutela all’instaurarsi di situazione, deve prevederlo espressamente, e che anche in presenza di una previsione espressa sia opportuno adottare ogni cautela nell’applicare meccanismi automatici pur previsti dalla legge, qualora essi comportino una contrazione di tutela in ambito familiare”.

 Ulteriormente, la Suprema Corte evidenzia che la caducazione automatica ed integrale dell’assegno divorzile, nella duplice componente assistenziale e compensativa, oltre che mancante di un saldo fondamento normativo, non appare compatibile con la funzione dell’assegno divorzile, così come espressa dalla Corte di Cassazione S.U. n. 18287/2018. Ciò ha condotto il collegio a sostenere che la sorte dell’assegno di divorzio “deve prendere le mosse e porsi in linea di coerenza e continuità infatti proprio con la ricostruzione recentemente fornita dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 18287 del 2018, in ordine alla funzione dell’assegno, non esclusivamente assistenziale ma in pari misura compensativa e perequativa, ed ai criteri per determinarne sia l’attribuzione che la quantificazione, e con la riaffermazione in essa contenuta del principio della solidarietà post-coniugale, nella sua aggiornata lettura di solidarietà del caso concreto”.Invero, sulla base di quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione S.U. n. 18287/2018 l’assegno divorzile, oltre che avere una funzione assistenziale-solidale, è volto soprattutto a riequilibrare la disparita delle posizioni economiche derivanti dalle rinunce professionali poste in essere dalla parte debole e dal compensare, in termini economici, il contributo che quest’ultima ha reso nel ménage familiare.

“Si tratta quindi di individuare, al di fuori di automatismi non consentiti dalla legge, e contrastanti con la funzione anche compensativa dell’assegno, il punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e la tutela della riaffermata solidarietà post-coniugale”.

Il collegio chiarisce che la convivenza produce l’effetto di far venir meno la componente assistenziale dell’assegno. Non altrettanto può valere per la componente compensativa, ove essa non sia stata soddisfatta “dentro” il matrimonio attraverso le scelte patrimoniali o con gli accordi intervenuti spontaneamente tra i coniugi. “ […] la componente compensativa, in caso di nuova convivenza il coniuge beneficiario non perde automaticamente il diritto all’assegno, ma esso potrà essere rimodulato, in sede di revisione, o quantificato, in sede di giudizio per il suo riconoscimento, in funzione della sola componente compensativa, purché al presupposto indefettibile della mancanza di mezzi adeguati, nell’accezione sopra riportata, si sommi, nel caso concreto, il comprovato emergere di un contributo, dato dal coniuge debole con le sue scelte personali e condivise in favore della famiglia, alle fortune familiari e al patrimonio dell’altro coniuge, che rimarrebbe ingiustamente sacrificato e non altrimenti compensato se si aderisse alla caducazione integrale. […]Se all’esito dell’accertamento indicato, si accerti che alla mancanza di mezzi adeguati si associano rinunce o scelte tra vita professionale e lavorativa pregiudicanti la condizione del coniuge economicamente più debole e non compensate per scelta autonoma dei coniugi al momento dello scioglimento del matrimonio, il coniuge più debole, benché si sia ricostituito una diversa comunità familiare, avrà comunque diritto ad un assegno atto ad operare il riequilibrio tra le due posizioni, in funzione perequativo-compensativa, parametrato al contributo dato ed alla durata del matrimonio.

 Quanto alle modalità di corresponsione, il collegio osserva che la funzione esclusivamente compensativa mal si concilia con un’attribuzione patrimoniale periodica e a tempo indeterminato. Invero, è auspicabile un calcolo dell’assegno non rivolto al futuro, ma rivolto al passato, correlandolo al contributo prestato dal coniuge nel determinato arco temporale.

Sarebbe quindi più funzionale, sia sotto il profilo economico che in un’ottica di pacificazione e di prevenzione della conflittualità, attribuire all’ex coniuge debole, in funzione compensativa, una somma equitativamente determinata, un piccolo capitale di ripartenza, in unica soluzione o distribuito su un numero limitato di anni, sotto forma di assegno temporaneo”.

 Le coordinate ermeneutiche sin ora tracciata hanno determinato il collegio ad esprimere i seguenti principi di diritto:

“L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno.

Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all’attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa.

A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge.

Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale né alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio”.